Indice
- 1 V13, il libro di Emmanuel Carrère tra racconto e resoconto
- 2 Religione e integrazione, da Carrère a Bianciardi
- 3 L’accoglienza che non siamo in grado di offrire
- 4 Integrazione e tolleranza
- 5 Come gestire mentalità millenarie?
- 6 Con V13 in viaggio fino in fondo alla notte
- 7 Il compito del linguaggio: precisione ed equilibrio
L’inquietudine e il sospetto, la curiosità, la volontà e il desiderio di capire, hanno spinto Emmanuel Carrère a partecipare, come inviato del giornale francese Obs, al processo per gli attentati terroristici avvenuti a Parigi, venerdì 13 novembre 2015, al Bataclàn, nei bistrot attigui e allo Stade de France: 131 morti e 350 feriti. Un massacro di persone inermi, inconsapevoli di essere oggetto di un odio senza pietà. Partecipavano a un concerto, erano seduti ai tavolini dei bistrot. Ecco il punto: perché inconsapevoli?
V13, il libro di Emmanuel Carrère tra racconto e resoconto
Charlie Hebdo, 7 gennaio dello stesso anno. E nel marzo 2016 a Bruxelles. A luglio avverrà l’altro massacro, sulla Promenade des Anglais, a Nizza. Quello era il clima storico. Il massacro nella sede della rivista satirica aveva dei motivi, che non giustificano nulla, ovviamente, ma al Bataclàn e ai bistrot no. La normalità viene lacerata. Non ha senso. E l’impreparazione dei servizi segreti francesi e belgi, viene stigmatizzata in questo processo, che comincia l’8 settembre 2021 e durerà circa un anno. Carrère è presente, e non è solo un giornalista, è uno scrittore di romanzi, di sceneggiature cinematografiche, di reportage, quindi molto attento ai confini tra un resoconto e un racconto, perfettamente consapevole della zona grigia dove il confine è incerto, e dunque sa che la prosa deve essere molto sorvegliata, nei toni e nei giudizi sulle persone: vittime, parenti delle vittime, avvocati, imputati (figure di secondo piano, gli assassini sono già stati uccisi).
Vorrei parlare di V13 (Adelphi) di Emmanuel Carrère sebbene l’autore, grazie alla chiarezza analitica del suo francese classico e ai temi di attualità che di libro in libro affronta, non senza irritare qualcuno o qualcuna offesi dalle sue indagini introspettive, abbia conquistato ormai un pubblico internazionale di lettori; e in più questo libro è già uscito a puntate su altri giornali di vari paesi, dunque non avrebbe bisogno di una recensione. Ma credo che sia urgente una riflessione su questi fatti, che abbiamo appreso dai media e che in vari modi toccano la nostra quotidianità di occidentali, sedicenti multiculturali dopo essere stati spietatamente colonialisti (ed esserlo ancora), e – che lo ammettiamo o no – inquieti e sospettosi verso il meticciato di culture e tradizioni.
Religione e integrazione, da Carrère a Bianciardi
Carrère non è un esperto di Islam, e non lo sono neanche coloro che sono gli attori del processo, avvocati, giudici e giornalisti, per cui ad un certo punto ascoltano l’esperto, Hugo Micheron, autore di Le Jidhaisme Français, del 2020.
In verità Carrère è l’autore de Il Regno, uscito per Adelphi nel 2015, dove racconta la nascita del cristianesimo e la sua affermazione come racconto e visione del mondo. Lui stesso ne era rimasto coinvolto ma poi ha perduto la fede.
Nel libro la sua autobiografia dialoga con la biografia di San Paolo e dell’evangelista tardo Luca, perché, come lui stesso ammette: “mi interessano le religioni, le loro mutazioni patologiche – e questa domanda: dove comincia il patologico? Dove comincia la follia, quando c’è di mezzo Dio? Che cos’ha nella testa quella gente?”.
Inoltre aveva pubblicato nel 2016 un reportage, A Calais (Adelphi). Lì una folla di migranti vive ai margini della città, nella cosiddetta “Giungla”, creando con la popolazione locale (e non solo) conflitti sociali che risultano ingarbugliati, perché l’integrazione è quasi impossibile non solo per la diversità culturale ma anche perché non c’è lavoro per tutti. Quando Bianciardi raccontava L’integrazione (Bompiani 1960), stava avvenendo in Italia qualcosa di simile, sebbene con due differenze fondamentali: l’integrazione avveniva tra italiani, (quelli del nord scarsamente propensi a mescolarsi), e nasceva una società di massa, che aveva bisogno di forza lavoro e di una uniformità consumistica, l’omologazione pasoliniana. Possiamo affermare che l’integrazione è avvenuta, e che è finita?
L’accoglienza che non siamo in grado di offrire
C’è un’altra considerazione da fare. Oggi ci troviamo alla recita finale del progetto dissennato della produzione per la produzione. Uso volutamente la prima persona plurale: per accaparrarci le materie prime abbiamo disseminato guerre e scatenato conflitti tribali, appoggiando le dittature più sanguinarie e più utili alla nostra causa, parliamo di accoglienza ma non siamo in grado di offrirla, inoltre evitiamo di ricordare il colonialismo, che cosa è stato (ad esempio la nostra rivoluzione industriale è stata finanziata dal lavoro degli schiavi delle colonie) e che cosa è oggi, mentre chi viene da quei territori queste cose le ha vissute sulla propria pelle. Non le dimentica. Fanno parte della sua storia. E ha cercato di capire la propria condizione nei ghetti di Bruxelles, poi ha fatto un viaggio di apprendistato in Siria, si è radicalizzato e il suo odio è diventato disumano, spietato.
“Professione?” “Combattente dello Stato islamico”, “Il presidente guarda i suoi appunti e, placido: “io, qui, vedo: lavoratore interinale”.
Integrazione e tolleranza
“Non immaginavo che avrei ascoltato con tanto interesse la giudice istruttrice belga Isabelle Panou – una donna sanguigna, che somiglia all’attrice Yolande Moreau – raccontare alla sbarra del V13 come Molenbeek sia diventato quello che è, e come l’Islam radicale abbia attecchito in Belgio. Nel 1969, dice Isabel Panou, il governo belga ha avuto l’idea di regolamentare la popolazione immigrata, per la maggior parte marocchina, affidando l’amministrazione del culto musulmano a una potenza “neutrale”, dotata dei mezzi per finanziarlo: l’Arabia Saudita. E’ stata una pessima idea. Sotto l’autorità di questa monarchia petrolifera mostruosamente ricca e allo stesso tempo mostruosamente arretrata, il Belgio e Molenbeek in particolare sono diventati quel vivaio di islamisti dove nella generazione successiva sono cresciuti sette degli imputati presenti nel box e tre dei componenti morti del commando.” Ecco che emergono altri particolari di quella che chiamiamo integrazione, società multiculturale, teorizzata da un postcolonialismo che mette sullo stesso piano (quando non ignora) le differenze profonde sulle quali sarebbe necessario confrontarsi.
Del resto su certi temi sensibili esistono differenze all’interno delle democrazie occidentali. Fino a che punto la tolleranza, che era tipica, in fatto di fedi e religioni, nell’antico mondo pagano, ed era completamente assente nel cristianesimo una volta giunto al potere, può costituire una base su cui costruire i rapporti?
Come gestire mentalità millenarie?
Quei giovani siriani, tunisini, marocchini e iracheni avevano creduto nella primavera araba, erano stati torturati e uccisi dai dittatori tipo Assad, avevano creduto nella rinascita dello Stato islamico ed erano stati sconfitti dai bombardamenti francesi. La complessità di questi problemi emerge nel processo V13 e Carrère cerca delle risposte tra le deposizioni e le testimonianze, tra gli orrori del massacro e la pietà che si esprime anche tra genitori delle vittime e genitori degli assassini.
Ci accorgiamo che gestire mentalità millenarie è un lavoro intellettuale che la politica affronta con superficialità, arroganza e approssimazione.
Con V13 in viaggio fino in fondo alla notte
Forse la parte meno interessante, ma necessaria, proprio perché le cronache giornalistiche si perdono presto nella memoria dei lettori, sostituite da fatti più recenti, mi sembra quella della ricostruzione, per tasselli narrativi, degli eventi che precedono e seguono gli attentati, cioè la parte più cinematografica; quindi le decisioni, le indecisioni e le defezioni, le fughe e l’agguato delle teste di cuoio francesi, una scelta criticata dall’autore perché si è preferito lo scontro a fuoco nel covo dei terroristi fuggitivi, con la conseguente distruzione dell’edificio, invece della loro cattura, meno difficile e più proficua per ottenere informazioni preziose, visto che erano già stati individuati in quella che in gergo poliziesco era stata chiamata “la macchia cospirativa”, il nascondiglio sotto l’autostrada.
Ma Carrère è sempre attratto dalla cronaca. Anche i suoi libri migliori, L’avversario (Adelphi 2012) e Vite che non sono la mia (Einaudi 2011) si nutrono di fatti da inchiesta o eccezionali (lo tsunami che devasta le coste dello Sri Lanka), che ogni volta interagiscono con la storia della sua vita, tanto che il lettore non è mai sicuro se sta curiosando in un’autobiografia o in un racconto, se ha tra le mani un documento o una storia un po’ vera e un po’ falsa. In questo caso il sottotitolo è fedele: cronaca giudiziaria. Ma ovviamente c’è molto di più. Si passa dalla teoria alla prassi giuridica, che deve pesare quei fatti, quei comportamenti, le giustificazioni, le colpe. Bisogna fare il viaggio fino in fondo alla notte, a quella notte. Conoscere e capire.
Il compito del linguaggio: precisione ed equilibrio
Del resto quello che si chiede Carrère, è quello che chiede al linguaggio: la precisione nei dettagli e quel lavoro difficilissimo di equilibrio emozionale che prevede in ogni caso il coinvolgimento dell’autore. Un processo penale sembra un suo luogo elettivo. Con le arringhe degli avvocati, dell’accusa e della difesa, si entra in un clima da romanzo giudiziario, ma è la giustizia stessa ad essere giudicata. E l’immagine finale ne conserva il senso: Nadia nel 2018 torna al Cairo, dove qualche anno prima era stata con la figlia Lamia, uccisa negli attentati. Parla in arabo con un poliziotto che le spiega che non può trattenersi oltre in quella piazza. Allora lei ha cominciato a raccontargli quello che era successo e perché non riusciva ad andarsene. “Nadia capiva che raccontarlo in arabo a un poliziotto egiziano sconosciuto era essenziale, era la cosa più importante che potesse fare. Anche il poliziotto lo ha capito. Alla fine del racconto ha detto a Nadia: tua figlia e gli altri sono shuhada, martiri, e sentire dalla bocca di quel poliziotto egiziano che i martiri erano loro e non gli assassini che nella loro crassa e strumentalizzata ignoranza si attribuivano quel titolo, è stato come se il mondo si raddrizzasse”.
Martiri inconsapevoli. Terribile.
Autore: Emmanuel Carrère
Titolo: V13
Postfazione: Grégoire Leménager
Traduzione: Francesco Bergamasco
Casa editrice: Adelphi 2023
Prezzo: 20 Euro