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Nel marzo del 2023 è morto lo scrittore giapponese Kenzaburō Ōe, premio Nobel per la letteratura nel 1994, aveva 88 anni. Nato in un villaggio dell’isola di Shikoku, nel sud-ovest del Giappone, è stato anche un’icona del pacifismo. Dopo l’esperienza mai dimenticata di Hiroshima si è sempre schierato contro il nucleare. Molti suoi libri sono stati tradotti in italiano, compreso Il figlio dell’Imperatore. L’edizione italiana, Marsilio 1997, è stata l’unica completa: nemmeno nella sua lingua e nel suo paese avevano avuto il coraggio di pubblicare il romanzo integrale, a causa delle minacce dei gruppi patriottici estremisti.
Uno dei suoi libri di maggior fascino è senza dubbio Gli anni della nostalgia (Garzanti, 2001). Forse sarebbe bene leggere anche Un’esperienza personale (Garzanti 1996) o meglio Una famiglia (Mondadori 1997, nella foto). Titolo inglese: A healing family. Una famiglia guaritrice, che si prende cura: questa esperienza infatti ha fortemente segnato non solo la vita ma anche la sua narrativa.
“Un luminoso mattino di giugno, in cui il vento spruzzava sul viso una pioggia sottile come foschia, andai all’ospedale in bicicletta, correndo sotto il verde fresco degli alberi di ginko. Arrivato lì, fui avvisato da un medico che mia moglie, già in ospedale dalla sera precedente, aveva partorito un bambino deforme”. Il libro Una famiglia racconta come Hikari, il figlio di Kenzaburō Ōe, sebbene autistico e soggetto a crisi epilettiche, sia diventato un affermato compositore di musica classica. Il brano tra virgolette è prelevato da Gli anni della nostalgia.
Kenzaburō Ōe e la schiavitù delle convinzioni
Kenzaburō Ōe ha tenacemente cercato di rappresentare la coscienza critica del Giappone del dopoguerra, come ha scritto nel discorso di accettazione del Nobel: “gli autori del dopoguerra presero le mosse proprio dall’enorme miseria e dolore della guerra del Pacifico… La società nel suo insieme e gli individui che avrebbero dovuto fare propria tale morale, tuttavia, non erano né innocenti né esenti da colpe, al contrario macchiati dall’esperienza di invasori in Asia. Quelle basi morali però non riguardavano solo loro, bensì anche tutte le vittime della bomba atomica usata per la prima volta su Hiroshima e Nagasaki, tutti i sopravvissuti e i loro eredi affetti da radioattività, comprese decine di migliaia di persone di madrelingua coreana”. E chiedendosi che tipo di identità dovrebbe cercare come autore giapponese, risponde con queste parole: umano, equilibrato, corretto.
Poi però aggiunge che il suo maestro è stato il professore di letteratura francese Watanabe Kazuo, traduttore di Rabelais, e infatti una venatura grottesca colora molti suoi racconti.
Tuttavia Kenzaburō Ōe non ha mai inteso ferire nessuno. La sua scrittura è di una razionalità che rasenta il candore, e ciò che le è più estraneo è il fanatismo. Quello che dice del suo professore può valere anche per lui: “aspirava a infondere nei giapponesi un umanesimo più umano, in particolare l’importanza della tolleranza e i pericoli legati alla tendenza dell’uomo a divenire schiavo delle proprie convinzioni”.
Gli anni della nostalgia
Pubblicato nel 1987 (e dieci anni dopo in italiano), Gli anni della nostalgia è un ampio romanzo di formazione e – come evidenziato dalla citazione più sopra – nello stesso tempo un’autobiografia. Difficile dire quanto sia utile distinguere tra i due generi, cioè tra quanto è realmente accaduto nei suoi anni di adolescente e di giovane scrittore e quanto invece è immaginato, inventato, rappresentato attraverso situazioni analoghe.
Resta indubbio che la spina dorsale del libro è il romanzo di formazione, evidente fin dal titolo e dai titoli dei vari capitoli. Il testo, di oltre 500 pagine, è diviso in tre parti, come la Divina Commedia e non è un caso. I due fulcri della narrazione sono l’autore stesso, che si svela subito in prima persona quando racconta del figlio Hikari e fa riferimenti espliciti al precedente romanzo Il grido silenzioso, e Gii, un personaggio di straordinaria forza magnetica, il suo maestro, cinque anni più grande di lui, studioso di letteratura inglese e soprattutto di Dante. Gii ama i luoghi nei quali è nato, che la sua famiglia ha da tempo immemorabile amministrato, per questo rifiuta il percorso accademico a Tokyo: vuole realizzare l’utopia del “Villaggio meraviglioso”, ma contemporaneamente segue da vicino l’educazione e la carriera letteraria di Kei (contrazione affettuosa del nome dell’autore).
Ne Gli anni della nostalgia spesso i piani temporali risultano diversi sebbene tra loro comunicanti: il passato ha una sua progressione, dalla fine della guerra al dopoguerra drammatico, dagli studi universitari agli esordi letterari, fino all’episodio conclusivo; il presente è invece impreciso, mutevole, perché fa entrare in scena il narratore stesso e la sua famiglia in momenti diversi della loro storia e della narrazione, insieme a una molteplicità di considerazioni sulla scrittura romanzesca, ad analisi delle poesie di Yeats, della Vita nova e della Commedia. A prescindere dai personaggi, il centro attorno a cui ruota tutta la galassia degli eventi e delle riflessioni è il grande tema natura/cultura, rifratto in tanti aspetti: la foresta e la città, la tradizione e la cultura occidentale, il passato mitico e la sua sconfitta, l’imperatore e la democrazia, razionalità e follia.
Crudeltà, ingenuità, amori
Il ritorno nella valle circondata dalla foresta che riveste le montagne dello Shikoku è un ritorno all’infanzia. Gii e Kei discutono di letteratura occidentale ma Gii è appena uscito dal carcere, dopo che ha scontato la sua pena. Per quale colpa? Ecco, questo interrogativo resta sospeso come un’oscura nuvola sopra lo scorrere degli avvenimenti.
A poco a poco si fa strada il ricordo e si torna agli anni cruciali, alla fine della guerra, al profondo legame con i luoghi magici dei boschi, agli ambigui espedienti a cui è ridotta la tradizione, di cui Gii si serve quasi per pietà verso le donne, mogli e madri dei soldati al fronte, e poi ne subirà le conseguenze crudeli e umilianti una volta che i militari faranno ritorno.
Anche Kei segue un sentiero accidentato per la sua formazione, pur avendo questo indimenticabile mentore al suo fianco. Nel suo percorso scolastico a Matsuyama e nelle relazioni con i compagni, non è solo il bullismo a stupire, quanto l’efferata crudeltà dei rapporti. Emerge così, in confronto, il suo carattere naïf, l’ingenuità, che tuttavia è affilata, del resto la pronuncia è abbastanza simile all’inglese knife, coltello, infatti – come sottolinea l’autore – spesso l’ingenuità è in grado di far male e ferire più in profondità.
Viene raccontata con lo stesso candore malizioso anche la sua educazione sessuale, dapprima la scoperta del sesso e poi le esperienze del giovane scrittore di successo con le attrici del cinema, fino al rapporto con la moglie Yu. Infine, sconvolto dalle parole strazianti degli hibakusha (coloro che sono stati contaminati dalle radiazioni e sono sopravvissuti), viene narrato anche il suo impegno politico, che paradossalmente avrà conseguenze drammatiche più per Gii, che era accorso a difenderlo e a difendere soprattutto sua moglie durante una manifestazione, alla quale invece entrambi non partecipavano, perché si trovavano in Cina. Questi elementi di comicità nera o di grottesco sono più evidenti nei racconti, ma affiorano ogni tanto anche nel romanzo “della nostalgia”.
La base d’operazione ovvero il Purgatorio
Con uno scarto improvviso, verso la fine della seconda parte, rientriamo nell’autobiografia. Sono pagine di diario quelle che descrivono i fatti relativi alla pubblicazione del suo racconto Il diciassettenne (in italiano Il figlio dell’Imperatore), che viene letto come un affronto alla massima istituzione giapponese e alla tradizione. Anche le minacce (“a cominciare da quella pietra lanciata nel mio studio”) rivolte a lui e alla sua famiglia, sono fatti reali che qui entrano a far parte del romanzo.
“Ero un giovane scrittore, non conoscevo assolutamente la realtà dei gesti insoliti degli esseri umani, come assassinare qualcuno o uccidersi in prigione”. E quando la sua casa editrice, impaurita dal clima che si era creato, pubblica una lettera di scuse, allora è la parte avversa che, accusando lui di vigliaccheria, lo minaccia di morte: di nuovo il grottesco fa irruzione nella realtà. Proprio considerando queste minacce Gii invita Kei a tornare nel suo luogo d’origine, nella foresta di Shikuko, insieme alla moglie Yu. Ha un progetto, quello del “Villaggio meraviglioso”, con cambiamenti nelle colture e l’organizzazione di una comunità unita che lavora in autonomia. Ma poi succede l’incidente. Avviene mentre lo scrittore è sempre più convinto, dopo la nascita del figlio con il grave handicap, che per il suo lavoro e per il futuro del figlio, il posto più adatto è Tokyo. L’incidente è l’incomprensibile assassinio commesso da Gii, che sembra radicarsi nelle oscurità della psiche umana, in una razionalità prossima all’assurdo, del resto il grottesco è parente stretto dell’irrazionale. E conseguentemente comprendiamo perché Gii, all’inizio del libro, era appena uscito di prigione.
Verso il tempo circolare e la nostalgia
La terza e ultima parte inizia con tanti ragionamenti saggistici, sia sulla Commedia sia sui romanzi di Kenzaburō Ōe. Una sorta di autocritica o autoesame affidata ai due personaggi principali, coadiuvati dalla sorella e dalla moglie dello scrittore. Viene persino citata tutta la sequenza dantesca dell’episodio di Ulisse, seguita dalle interpretazioni di William Blake e John Freccero. Del resto il titolo del primo capitolo della terza parte è la citazione dei versi finali del Purgatorio. In seguito le discussioni approfondiscono il rapporto dei romanzi di Kenzaburō Ōe con i fatti realmente accaduti.
Appare rilevante l’analogia con il capolavoro dantesco, infatti tutta la parte finale è speculativa, sebbene i ragionamenti riguardino, in modo quasi ossessivo, la moralità di una scrittura che cerca di restare fedele ai fatti e nello stesso tempo di sentirsi libera di usare l’immaginazione, dove la visionarietà diventa una modalità interpretativa. Kei cercava di entrare nella mente del Gii assassino, cioè di comprendere come una persona educata ai più alti valori letterari e culturali potesse commettere delitti orrendi. Insomma, l’esibita razionalità delle argomentazioni critiche non esclude le contorsioni della mente verso l’assurdo.
Gli anni della nostalgia, lo scrittore e il suo privato
Ma c’è anche un altro problema: con quale diritto uno scrittore mette a nudo il proprio privato, che riguarda anche coloro che gli sono vicini, come la moglie e il figlio, la sorella, e i fatti di un amico d’infanzia, considerato che spesso la fantasia prende il posto della realtà e le aberrazioni potrebbero essere solo supposizioni?
“Nel descrivere questa scena così cruda e realistica, stranamente, non pensai neanche un attimo al pericolo di ferire l’animo di Gii”. Una tale mancanza di pudore, evidente anche in alcune crude descrizioni, è sia un oggettivo valore letterario sia una totale mancanza di riguardo per i sentimenti delle persone più care. Certo, nello scrittore prevalgono le necessità della creazione, ma la quotidianità, la vita di ogni giorno, ne resta ferita e sconvolta. Questa contraddizione attraversa tutto il libro proprio perché l’autobiografia sconfina spesso e impercettibilmente nel visionario.
Alla fine, con una immagine da palude dantesca, il corpo di Gii viene deposto nell’isola al centro del lago artificiale che lui stesso aveva creato, e il racconto termina come vorticando in una ripetizione del tempo, in un gorgo del tempo ciclico, che è l’immagine più esatta della nostalgia.
Scheda libro
Autore: Kenzaburō Ōe
Titolo: Gli anni della nostalgia
Traduzione dal giapponese di Emanuele Ciccarella
Editore: Garzanti 1997, 2001
Pagine: 504