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Eugenio Montale e ‘La casa dei doganieri’

Il secondo libro di Eugenio Montale, Le occasioni, (nella foto le edizioni Einaudi e Mondadori e Il Carteggio Einaudi-Montale per ‘Le Occasioni’ edizione Einaudi) esce nell’ottobre 1939. Sono trascorsi ben 14 anni da Ossi di seppia e le truppe di Hitler hanno appena invaso la Polonia.

Sono altri tempi rispetto al primo libro, che esprimeva la sua “sfiducia nella realtà” (Contini), qui Eugenio Montale sembra filtrarla, accoglierla e nello stesso tempo assegnarle lo statuto di occasione opportuna, o anche disastro annunciato, insomma il sospetto verso la realtà rimane ma le sue difese sono meno rigide sia verso i sentimenti sia verso gli eventi della storia, sempre più angoscianti.
Nella nostra memoria ne rimangono solo esili tracce, pensa il Montale degli anni Trenta, ma attraverso quelle si può seguire qualche sentiero di senso. Spesso gli oggetti, privi del simbolismo allusivo degli Ermetici, si accumulano o si affollano nel suo mondo interiore, e lui trascrive le apparizioni: limpide, solide, e nello stesso tempo fugaci, e non può fare altro che costruire questi oggetti come teoremi del possibile.

Eugenio Montale e La casa dei doganieri: il nucleo torbido e cristallino della poesia

Ora vorrei proporre qualche riflessione su una celebre poesia, La casa dei doganieri, perché mi sembra che ad ogni lettura si rinnovi. Attraversa decenni e generazioni, quasi indifferente ai mutevoli scenari della quotidianità e conservando intatto il suo nucleo torbido e cristallino.
Capisco che l’ossimoro può disturbare e cercherò di spiegarmi. Credo che succeda per le poesie che riescono a ferirci in profondità. E continuano a farlo nonostante l’autore stesso abbia fornito dettagli che sembrano demistificare il racconto che la poesia mette in scena. “L’ho scritta per una villeggiante morta molto giovane. Per quel poco che visse, forse lei non s’accorse nemmeno che io esistevo”. E ancora: “La casa dei doganieri fu distrutta quando io avevo sei anni”. Quindi nel 1902. La poesia è del 1930.

In seguito, nel Diario del ’71 e ’72 Eugenio Montale scrive nella poesia Annetta: “ Le tue apparizioni furono per molti anni / rare e impreviste, non certo da te volute. / Anche i luoghi (la rupe dei doganieri, / la foce del Bisagno dove ti trasformasti in Dafne) / non avevano senso senza di te”. La memoria mescola le carte. Gli stessi critici non si fidano molto delle sue dichiarazioni a posteriori. La giovane frequentata da Eugenio Montale, Anna degli Uberti, è morta in realtà nel 1959, a 54 anni. Come ci spiega Dante Isella nella sua edizione annotata delle Occasioni : “Una casa, dunque, scomparsa molto tempo prima di quell’incontro decisivo, una donna che non vi ha mai messo piede, vissuta poco e che forse nemmeno si è accorta del suo ‘amico discreto’… ce n’è quanto basta perché la lettura eviti d’impiantarsi sulle sabbie mobili dei meri referenti biografici”.
Montale stesso dice che “bisognava esprimere l’oggetto e tacere l’occasione-spinta”.

Nei luoghi di una felicità lontana

Infatti queste dichiarazioni o rivelazioni non aggiungono o tolgono nulla alla poesia. Ogni lettore de La casa dei doganieri fa suo quel ricordo, una situazione quasi archetipica, entra in quell’edificio appollaiato sulla scogliera scoscesa dove era avvenuto il fatto e l’eco delle parole e dei gesti è andato perduto.
Ogni lettore conserva dentro di sé i luoghi di una felicità lontana e di un addio doloroso e per questo le differenze del dove e del quando e del come sono irrilevanti. Anzi, Eugenio Montale e il lettore possono condividere il racconto, osservare gli interni e gli esterni di un paesaggio aspro ed evocativo, rimangono stregati, e l’occasione è descritta magistralmente, semplicemente perché meglio non si poteva dire, inoltre a chi non è capitato di rivisitare un luogo che dovrebbe essere pieno di ricordi (“lo sciame dei tuoi pensieri”) e invece appare desolatamente vuoto? A chi non è capitato di pensare che al frammento di realtà, custodita come dentro una teca, non corrisponda nell’altro o nell’altra alcuna memoria? E a chi non è capitato di fissare un oggetto, un correlativo oggettivo, che quasi derisorio e tragico riassuma in sé il senso ultimo del trascorrere del tempo? (“La banderuola / affumicata gira senza pietà”).

La realtà come un’apparizione

Anche la poesia contigua, Bassa marea, propone un’immagine del ricordo come qualcosa che emerge o viene svelato dal riflusso delle onde. E l’oggetto sta lì, ormai privo di connessioni. “Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana / la casa e in cima al tetto la banderuola / affumicata gira senza pietà”. La casa è deserta, pare abbandonata, nell’oscurità non si sente più il respiro di lei. Il riferimento alla Silvia leopardiana, considerata anche la giovane età di Annetta e l’appunto: “il suono del tuo riso non è più lieto”, è un topos inevitabile. Tuttavia Eugenio Montale continua a considerare la realtà come un’apparizione che di volta in volta dobbiamo inevitabilmente ricostruire, non tanto il passato, come sarebbe ovvio, quanto addirittura il presente, dove qualche tassello mancante potrebbe rivelare un mondo ulteriore (“Il varco è qui?”).

Nella dimensione della poesia, senza dove né quando

Il tempo sembra avere una sua illusoria ciclicità (“Ripullula il frangente / ancora sulla balza che scoscende…”), ma ci sono elementi più concreti, oltre alle vecchie mura della casa, alla banderuola affumicata e verso l’orizzonte la luce di una petroliera: “Tu non ricordi la casa di questa / mia sera. Ed io non so chi va e chi resta”. Sono le considerazioni che chiudono il racconto. Mancano gli elementi di identificazione dei personaggi eppure un uomo (ma vale ugualmente per una donna!) entra in un luogo che molti anni prima esisteva per uno scopo preciso (la casa delle guardie di finanza che sorvegliavano il traffico marittimo) ma poi è stato lasciato alle intemperie (“Libeccio sferza da anni le vecchie mura”) e si può immaginare una storia d’amore, di amicizia, di complicità, tra quelle quattro mura, e poi una lunga separazione. Così adesso niente è più certo, tranne questo luogo, questa casa che “desolata t’attende dalla sera / in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri / e vi sostò irrequieto”. Eugenio Montale ci affida un racconto che è un assemblaggio di frammenti dispersi nello spazio, che hanno tempi diversi, ma che ha un suo nucleo incandescente, non detto ma sentito nelle profondità geologiche di ogni lettore e con il quale ogni lettore non può che essersi ustionato.

Eugenio Montale e i riflessi della memoria

Si potrebbe ipotizzare però una lettura diversa. Montale è un autore troppo intelligente per non capire che la storia per la quale ha fornito degli indizi (poi rivelatisi depistanti) tocca un nervo scoperto condiviso da tanti. Forse affascinava lui stesso. A volte un poeta è sorpreso dalla rilettura delle sue poesie, per quello che possono racchiudere o lasciare intuire. Ciò che appare più sorprendente è che la poesia funziona allo stesso modo anche se teniamo presenti i dati della realtà: una casa cadente dell’infanzia, il paesaggio ligure delle vacanze, una ragazza conosciuta in gioventù, la distanza temporale che si materializza come distanza dall’orizzonte marino e il tentativo di cucire insieme questi frammenti (“il calcolo dei dadi più non torna”), perché “altro tempo frastorna / la tua memoria”. E poi c’è questo rammarico, ribadito, “Tu non ricordi”, e dunque il suggerimento (“il suono del tuo riso non è più lieto”) e insomma quel tu sembra assomigliare sempre più all’io: “in me i tanti sono uno anche se appaiono / moltiplicati dagli specchi. Il male / è che l’uccello preso nel paretaio / non sa se lui sia lui o uno dei troppi / suoi duplicati”, scrive in apertura di Satura (1962-1970): siamo sicuri che a non ricordare sia qualcun altro e non invece il poeta stesso o “uno dei suoi duplicati”? Così il verso finale risulta più pertinente: “Ed io non so chi va e chi resta”.

Comunque, cambia tutto ma cambia poco, perché quel nucleo incandescente composto di rammarico, di segni stridenti e ineffabili del tempo che ricompone e assembla i suoi collage, continua a emettere la sua luce ipnotica e perturbante.


Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.

Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.

Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.

Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende…)
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.

Noticina sulle rime

ABBAC / DCDEEF / FGHGH / IBiILL che nasconde il ritmo più regolare: ABBA CDCD EEFF GHGH IBII LL: sarebbero cinque quartine più un distico ma vengono suddivise in 5+6+5+6

Inizia con due rime incrociate, prosegue con due rime alternate ma separate da una pausa, prosegue con due rime baciate e poi altre due baciate ma con un altro salto da una strofa all’altra, ritorna alle rime alternate, e chiude con dei fuochi d’artificio (simula un ABBA come aveva iniziato, ma nel mezzo infila un richiamo al secondo verso e una quasi rima, quindi conclude con due rime baciate, sebbene gli ultimi due versi siano molto frammentati, anche con rime interne e una sequenza di monosillabi e bisillabi, quasi a significare un tentativo di avvicinare qualcosa e l’inevitabile dispersione).

A questa raffinata musicalità vanno aggiunte le ripetizioni anaforiche, come se si volesse conservare un passato che per sua natura si slega.

Pubblicato in Poesia.

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