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‘Slow Horses’ di Mick Herron ovvero lo spionaggio come antropologia

Certamente i romanzi di spionaggio possono descrivere un aspetto importante del nostro mondo. Al lettore o spettatore comune quello può sembrare un mondo parallelo, quasi un gioco virtuale, sebbene le recenti vicende giornalistiche siano lì a smentire drammaticamente l’ipotesi o l’illusione.

La realtà si è ispirata ai romanzi di spie o viceversa? Insomma, se le narrazioni sono ben scritte, i film sono curati, senza dialoghi superflui o banali, se le ambientazioni sono raffinate e l’ironia è intelligente, c’è sicuramente da divertirsi ma anche da inquietarsi. Non è un mondo a parte, di cui si sospettano trame criminali, eversioni, furbizia senza sentimenti, un controllo delle emozioni, opportunismo estremo. Sembra invece l’espressione di una zona d’ombra della nostra contemporaneità, qualcosa di freddo e vicino che ci accompagna, ci pedina e forse è anche dentro di noi, fa ormai parte del nostro codice genetico (o ne ha sempre fatto parte, se laceriamo quel velo d’ipocrisia residuale che riguarda il termine civiltà).

Mick Herron, tra parole e immagini

Considerazioni che nascono durante la lettura del primo volume della saga di Mick Herron ‘Slow Horses’. Non è una buona cosa aver visto prima la serie televisiva tratta dai suoi libri (distribuita da Apple TV mentre i libri sono nella Universale Economica Feltrinelli), perché immediatamente viene da abbinare alle parole facce e luoghi, fisionomie e smorfie già note, quasi ne fossero l’unica declinazione possibile. Non è facile astenersi, o ricodificare i volti, gli ambienti. Disturba persino che la parola scelta dal traduttore, “brocchi”, sia inferiore al più pertinente “ronzini” della serie televisiva, slow horses, per quanto “cani” e “mastini”, cioè gli agenti bravi, se la giochino alla pari.
Insomma, se non ci fosse quell’immaginario che si è depositato nella memoria, potrei, in quanto lettore, scegliere altre facce, altre icone del degrado, o non sceglierle affatto e godermi soltanto il mondo delle parole. Poiché Herron è gustosamente ironico di suo e imbastisce nei dialoghi un gergo che tiene a distanza le banalità oppure le traveste comicamente. Puntando al ribasso con una spy story può stupire alzando la posta.
In effetti, Mick Herron se la gioca alla grande, ammiccando al Dickens di ‘Grandi speranze‘ o di ‘Casa desolata‘, alla ‘Folgore nera‘ di William Golding, citando un verso di ‘The waste land’. Sempre con un’ironia divertita.

Ordine e disordine, un mondo di contrasti

Il personaggio principale non riceve le attenzioni che ricevono i comprimari, a cominciare da Jackson Lamb, il capo dei ronzini, che lancia freddure e sarcasmi da capogiro, poi Catherine Standish, Roderick Ho e gli altri, ognuno caratterizzato sia da una colpa sia da una debolezza: l’ingenuità, l’alcolismo, la curiosità, in quell’edificio malandato dove si trovano a espiare: la casa nella palude. River Cartwright, il giovane spedito nella palude, per intercessione dell’ancora temuto nonno, a confronto pare anonimo. Mick Herron non solo muove i fili ma costruisce dei personaggi credibili, per quanto al limite della credibilità, visti nell’insieme.
Regent’s Park, la zona ricca di Londra, è designata come il centro elegante dove si costruiscono e contrastano le trame nazionali e internazionali, spionaggio e controspionaggio, dunque che bisogno hanno i grandi capi di quel gruppo di falliti? La Casa nella palude, per quanto scalcinata, divora stipendi e risorse. Evidentemente l’influsso dickensiano dei contrasti netti tra luce e buio, tra ricchezza e povertà, ordine e disordine, viene riadattato in modo piuttosto evidente, e come non vedere in Ragno Webb una riedizione di Uriah Hepp? Tuttavia bisogna sottolineare un tratto comune tra i due mondi: l’assenza di scrupoli.

Il valore (e la bellezza) della risalita

L’eroe è il giovane bravo e sfortunato che cerca di riabilitarsi nell’ambito dei servizi segreti inglesi, dopo aver combinato, probabilmente non per demerito suo, un disastro (per quanto virtuale, essendo una esercitazione). Dovrebbe esser questo il centro dell’azione, in realtà ogni personaggio porta con sé la sua storia e il fatto di trovarsi nella casa nella palude vuol dire che è una storia dolorosa, imbarazzante, con un suo marchio d’infamia o di scherno. Ma non tutto è perduto, lì si continua a vivere o sopravvivere e questo credo sia il fulcro vero della saga. Quelli che hanno fallito in qualche modo ottengono una seconda opportunità, dunque quel luogo è un purgatorio, un luogo dove riciclarsi e aspettare: “il perenne crepuscolo della serie B”, nel quale si gioca a volte meglio della serie A e si cerca appena possibile di ritornare nella massima serie, nelle stanze paradisiache di Regent’s Park. In questo modo i contrasti si moltiplicano e Mick Herron se li cucina con l’abilità e il gusto di uno chef stellato.

Mick Herron e il vero, dietro le quinte dell’invenzione

Il dialogo tra il piccolo River abbandonato dalla madre e il nonno che cura il giardino, rievocato dopo un centinaio di pagine, è un altro episodio dickensiano, che nasconde il segreto dei segreti, perché in realtà il Vecchio Bastardo, cioè il nonno, era stato il capo delle spie inglesi negli anni della guerra fredda. Tutti questi fili colorati si intrecciano in trame imprevedibili, condite da dialoghi spesso esilaranti, specialmente se sul set compare la figura pigra e trascurata, col suo impermeabile mai lavato e i capelli lunghi e unti, di Jackson Lamb, per il quale la vita è il luogo privilegiato dove esercitare la satira. E dunque ci troviamo nel genere ormai codificato delle spy stories ma con una variante significativa: la consapevolezza di poterne uscire tranquillamente, magari con riflessioni come questa: “volubile era un termine da romanzo del primo Novecento, un mondo dove Evelyn Waugh e Nancy Mitford giocavano a carte su appositi tavolini da gioco”. Già, il gergo è importante, in questo caso impreziosito da quella supponenza da antropologhi che conoscono fino alla noia le abitudini e le perversioni della tribù osservata, e per le sue spie Mick Herron se ne inventa uno intrigante, da condividere con i suoi lettori, quelli che vivono nei quartieri alti o quelli che sopravvivono nelle case del pantano. Viene da pensare che lo spionaggio sia apparentato all’antropologia. Del resto, c’è molto di vero dietro le quinte.

Per tornare al discorso iniziale, è sufficiente citare una frase che River Cartwright dice a proposito del nonno, su quello che gli leggeva o gli regalava da leggere quando era piccolo: Kim, un Kipling che svela l’intrigo tra le grandi potenze di quel periodo, Ashenden o l’agente inglese di William Somerset Maugham, le opere complete di Le Carré. “Sono storie inventate – affermava il nonno – ma non significa che non siano vere”.


MIck-Herron-Slow-horses.-Un-covo-di-bastardi-copertinaokScheda libro

Autore: Mick Herron
Titolo: Slow horses. Un covo di bastardi
Editore: Feltrinelli
Anno: 2018
Traduzione: Alfredo Colitto
Pagine: 334
Prezzo: 13 euro
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