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Pubblicato nell’agosto di un anno fa e vincitore proprio nei giorni scorsi del 67° premio nazionale di poesia Giosuè Carducci, “Tremalume” (Marcos y Marcos) di Fabio Pusterla raccoglie poesie scritte tra il 2018 e il 2022.
Tremalume e l’esordio
Più che una cronologia, l’impressione è che nel libro diversi tasselli compongano un mosaico di temi e di umori che hanno radici profonde e rami che si allungano nell’aria abbruttita dei nostri tempi. Per proseguire nella metafora, gli stomi delle foglie parlano con l’ambiente esterno, e si nutrono e scambiano elementi per poter vivere senza vergogna e senza omissioni, o per sopravvivere in qualche modo e nel modo giusto al degrado: la poesia di Pusterla non è solo il risultato di una elaborazione interiore ma ha un bisogno fisiologico di interagire con il lettore. Senza sconti.
Questo poeta, nato nel 1957 a Mendrisio, nella Svizzera di lingua italiana, pluripremiato e tradotto in varie lingue, aveva esordito nel 1985 con un’opera recentemente ripubblicata per la quarta volta nel 2022 dalle edizioni Casagrande di Bellinzona: Concessione all’inverno. Poesie 1976-1984 (Prefazione di Maria Corti). A distanza di quasi quarant’anni la raccolta d’esordio mantiene la sua freschezza giovanile, e brilla l’acutezza che da sempre contraddistingue il poeta ticinese, insieme al fascino drammatico dei suoi paesaggi montani.
Anzi, con il tempo la sua “pietra ferrigna, / rossastra (scoscesa ripa prima, poi bosco / fitto, deserto), solcata, / di scure righe laterali, quasi a picco, / senz’acqua” è una roccia parlante, che intuisce gli orrori celati: “Nascosti in agguato: / i bunker, le sagome automatiche, / gli obici pesanti. / Qui si insegna la guerra”.
Un libro di straordinaria qualità inventiva, di un’ironia ferita ma aggressiva, di chi non ci sta, di chi si trova stranamente nei panni dell’asociale, mentre gli asociali sono proprio quelli che sono così ben integrati: “Servi / come sempre.” Quello che più colpisce è la felicità linguistica contrapposta a un regime storico di libertà condizionata che stava chiudendo spazi a qualsiasi altra forma di libertà, cominciando dai diritti sociali. Nella poesia si respira l’aria delle altezze, aperta a un futuro ancora possibile.
I. Le sbarre
Tremalume è un neologismo, “in cui il tremore, la minaccia e la preoccupazione non eliminano affatto la piccola sopravvivenza di un lume, di una minima luce a cui affidarsi”: così spiega l’autore. Una fiammella che non si spegne nonostante l’alito cattivo dei tempi sia proprio quello preconizzato nel libro d’esordio. Le sbarre, fantasmatiche o reali, in varie forme, e che ci siano dietro dei conigli o siano la gabbia di un io, si possono immaginare tra noi e la realtà, e allora: chi davvero è dentro e chi fuori? Un dubbio che percorre l’intera opera, sebbene la lettura di poesie nelle carceri, a Secondigliano, a Napoli, e a Montacuto, sulle colline anconetane, non lascino dubbi e, per quanto con toni differenti, ricordino la pietas del Carcere demolito di Franco Scataglini.
Chi soffre per quello che ha commesso è dietro le sbarre, chi legge poesie per comunicare che esiste una società, è fuori. Ma poi l’autore percepisce che la società è segnata dall’ “assenza di un’idea comune, condivisibile”, e il sentimento della condivisione non basta più. Con un paradosso, profondamente, ricordando Francesco Scarabicchi, si sente: “Il vento che non c’è”. L’interrogativo che queste esperienze lasciano scava fino all’amarezza più acre. Ma i destini umani vanno anche controcorrente, come le acque di Medel, che ‘salgono’ verso il nord Europa, e raffigurano e trasfigurano il tempo trascorso, “che oggi lo fa assurdo”. Ma quel poco che resta: “Lo guardo, apre le ali, forse vola”. Un airone grigio, Francesco, il tempo, nel battito lieve di una visione.
II. Requiem
Seguono alcune poesie sugli addii, che coinvolgono persone e paesaggi, dunque non è un caso che l’Andrea con cui l’autore conversa sia Andrea Zanzotto e la citata “valle travolta paese smemorato” richiami luoghi del poeta ticinese Giorgio Orelli. Tuttavia la centralità della sezione è occupata dal poemetto Requiem per una casa di riposo lombarda, ispirato dai tragici avvenimenti della primavera 2020, durante la fase acuta e sottovalutata (specialmente in Lombardia) dell’epidemia di Covid. Più centrale ancora è il tema dell’abbandono, in particolare dei vecchi in una società di vecchi: “Nome, se ho avuto un nome / adesso è naufragato”. Oppure, con sarcasmo: “Merce avariata macchina obsoleta / ingombri questo siamo / per voi merci più fresche”. Il quinto movimento, una sorta di danza macabra che Pusterla dice modellato sul Dies irae, ricorda anche un poeta che di questa cupa ilarità e del ritmo martellato e satirico ne ha fatto un proprio canone stilistico: Ercole Bellucci, anche lui scomparso troppo presto. Si potrebbe – sebbene questa sia l’affermazione incongrua di un lettore – aggiungerlo agli addii.
III. Cielo dei vinti
La terza parte sembra di conoscerla o riconoscerla perché si entra nel tipico habitat di Fabio Pusterla, in quella frizione tellurica tra elementi antichi, primordiali, e l’attualità, con certi accostamenti che sprigionano nuove sensibilità verso gli eventi, quasi bastasse spostarsi appena un po’ di lato, cambiare angolo visuale, riflettere su una fotografia. Truganini, l’aborigena della Tasmania, l’ultima testimone smemorata e disincantata del suo mondo perduto, sterminato dai colonizzatori, ci guarda. Il nome diventa vocativo più che evocativo (ormai questo è diventato impossibile perché: “Truganini non può dire io / Truganini non può ricordare nulla”). In pochi memorabili versi è racchiusa la cancellazione e riscrittura della storia: “Poi vennero le navi nere. / Scomparvero i corpi.” Truganini si sporge su quel vuoto mentre i colonizzatori ne spazzano via persino i residui. “Truganini saprebbe tutte le risposte. / Truganini conosce tutte le domande. / E l’ultima fa più male chiede perché”.
Ma a chi? Ai “vincitori invisibili, / ignobili”. Però questa condizione sembra avere rimbalzi epidemici ovunque. E come in una galleria scorrono le immagini degli antenati. Ogni lettore può estrarre, da queste, le proprie, osservando il mondo che ci sta attorno, ancora ‘naturale’, nei boschi, nei fiumi, nelle rocce, e ripensando al prima: “Navigando dentro strati di foglie / di felci e castagne puntute / traversando ogni rovo calavi a noi distratti / scomparivi in un soffio” ma nella sua bisaccia quel prima aveva ancora una speranza. La speranza di tutti. Condivisa. Che ne è rimasto? E per fotogrammi improvvisi, fulminei, poi si arriva a noi: “Tra gli scomparsi / segna anche i nostri volti: arriveremo/ presto e per sempre saremo // atomi di una cosa senza nome”.
IV. Lugangeles
Si potrebbero scegliere tanti sintomi di una frana. Anche linguistica. Pusterla mostra un esempio. La miseria umana e culturale delle Leghe del nord non poteva suscitare un poema più desolato e caustico. Quelle “Valli antiche di miseria” si travestono da città degli angeli, identificandosi nel neologismo del titolo. Lugano e Los Angeles si fondono come un grande parco dei divertimenti e delle opportunità. Ma lo sanno tutti che sono carnevalate: “bramiti d’urbanisti e architetti seriali”. Splendido l’ingorgo tra le brame di soldi e il bramito dei cervi alpini. Ormai anche su quei pascoli scorre una linfa amara. Se in Concessione all’inverno prendeva corpo una voce, limpida nella sua originale commistione di levità e durezza e che ancora trattiene, dopo quarant’anni, una sorprendente forza e luce d’attualità, questo libro sembra attingere energie proprio dall’inattuale, dalla consapevolezza addolorata e combattiva di chi, guardandosi attorno, avverte di vivere in una riserva indiana: dunque torna l’interrogativo iniziale, chi sta dentro e chi fuori?
16
Caro silenzio, ti scrivo per dirti
che non ho niente da dirti. Ti penso
nei labirinti di Lugangeles, nel traffico
frenetico scomposto. So che ci sei
non so dove, in quale vicolo o buco.
Vivi nei margini ti celi come capita
di fare anche a me. La debolezza ti guida
l’assenza di un progetto. Ci incontreremo
per caso in uno spazio affollato
o deserto. Ci riconosceremo, mi dico.
In certe apparizioni, se non altro. Nella sua vita d’altura, “nella roccia / più dura a cui si abbraccia / splendida la silene”: la silene bianca o la silene rigonfia, quasi umile, che magari non ci fai caso, mentre cammini per un sentiero di montagna, ma eccola che spunta improvvisamente con cespi di rara eleganza. Sempre in Pusterla la natura parla e le sue voci sono molteplici.
V. Angelicanze
Pusterla è inoltre molto attento agli eventi casuali che sembrano tenere un discorso per immagini, che sono inaspettatamente portatori di significati, basta saperli cogliere. Nell’afa sembra di stare nel giardino della sua casa di Albogasio, una enclave italiana in Svizzera, affacciata su un ramo del lago di Como, dove un cervo vi fa una visita inattesa ma incappa in un guardrail. Poi riesce a scappare con la sua “lieta ritrovata nobiltà”. C’è questo contrasto tra naturale e artificiale, questa convivenza che sta diventando impossibile per l’aggressione dilagante dell’artificiale, sotto ogni aspetto, eppure il sentimento si scopre più complesso, a volte ci si abitua: “Ma è una poesia / moderna, d’acqua ingabbiata in dighe, / acqua d’altra rapina, argini osceni / esposti, tubature interrate. Tuttavia il lago esiste / e dalla sua cupezza parte a volte / un riflesso di luce, quasi un grido”.
Nei Dialoghi con Lucio (ma poi c’è anche l’altro nipote che nasce, Tullio) sono appunto questi bambini, le loro infanzie e invenzioni a instaurare un dialogo in conclusione del libro, come per trasmettere loro il testimone (per destino generazionale secondario) di un mondo che va in malora, però non senza un barlume di speranza, un tremalume.
5.
C’è un cervo che nuota nel lago
di notte nell’acqua scura
un cervo che corre saltando
sul tondo della luna.
C’è un cervo che si avvicina
che viene dal buio profondo
un cervo che porta fortuna
e viene incontro al mondo.
Autore: Fabio Pusterla
Titolo: Tremalume
Casa editrice: Marcos y Marcos
Anno: 2022